Rape, rapanelli e altri ortaggi

«Se hai un giardino [o un orto, aggiungiamo noi] e una biblioteca, non ti mancherà nulla», scriveva Marco Tullio Cicerone, oratore e filosofo romano, nelle Epistulae ad Familiares scritte tra il 63 e il 43 a.C. Il motto è ripreso da una nuova collana editoriale illustrata (“Dahlia, Giardini, Fiori, Orti”, a cura di Patrizia Sanvitale, la grafica di Antonio Meda, per le Edizioni Antiga) che pubblica un prezioso volume di Luisa Angelici dal titolo La cura dell’orto (pp. 128, euro 14).

La passione per l’orto

La passione per l’orto di Luisa Angelici nasce più di quarant’anni fa quando, poco più che ventenne cominciò a coltivarne uno di 50 metri quadrati: era un orticello, alla periferia di Sondrio, dove vive da sempre, compreso nell’affitto dell’appartamento di una palazzina in cui abitava. Dopo il primo orticello ne è arrivato un secondo e poi un terzo, un pezzo di terra recintato, come ricorda lei, tra i prati sempre alla periferia di Sondrio, chiamata Agneda, quello di cui si sta prendendo cura da trent’anni circa e che è l’oggetto del suo racconto.

Niente di eclatante, nessuno ci avrebbe scommesso una lira, ma agli occhi dell’autrice ha una peculiarità non da poco: una falda acquifera che scorre in profondità avrebbe reso quel terreno autosufficiente: niente innaffiature, o quasi. Una manna. È così che il campo diventa un affare di famiglia.

Il campo si è sentito amato fin da subito e durante tutti questi anni non ha mai smesso di rinascere, crescere, trasformarsi e di regalare, di stagione in stagione, gioie sempre nuove, racconta Luisa. È nato senza un progetto preciso, semplicemente germogliato dalla passione, come uno dei tanti semi che poi ha piantato, insieme al compagno della sua vita.

Quieto in superficie ma in fermento sotto le zolle, questo pezzo di terra che Luisa lavora – gli attrezzi che appartengono da secoli a quella cultura contadina in cui il concetto di utilità e di bellezza coincidono – si trova a pochi passi dalla zona industriale e resiste, miracolosamente, insieme all’ ultimo “piccolo mondo antico” che ancora si trova in zona, popolato di animali e piante superstiti, scampati all’urbanizzazione che imperversa anche nella provincia più piccola d’Italia, che le Alpi Orobie limitano, in parte, a sud. Una fortuna.

Come ogni giardiniere che si rispetti, anche Luisa parla alle piante: «mi sembra che hai sete», «aspetta che ti libero dalla cocciniglia», «ora lego ai sostegni i fagiolini che ti tolgono la luce», «stai tranquilla che l’anno prossimo ti sposto all’altro lato dell’orto». Ma nel libro, il dialogo non si ferma qui; si dipana, intimo e profondo, con la natura e le montagne; con la città che ama; con le persone alle quali è legata e, in particolare, con l’uomo con cui ha tanto condiviso – a lui è dedicato il libro: è lui il velato e furtivo leitmotiv, ispirazione e occasione, per l’autrice, di lasciarsi andare, timidamente, a pensieri, riflessioni, meditazioni sulla Vita, quella con la maiuscola. Ma al di là di ogni considerazione, l’entusiasmo e la contentezza di ritornare a casa con insalate verdi, rosse e variegate, zucchini e melanzane, peperoni e pomodori, rape, patate e piselli del suo orto si schiudono in un caleidoscopio di colori: rosso titanio, giallo cadmio, blu di Prussia coniugati in diverse e originali nuances. Si, perché sono una cinquantina gli acquerelli – con l’aggiunta di qualche tocco di chine e matite – che danno lustro e fissano su carta la bellezza dei frutti del suo orto, ma anche di tulipani, rose, non-ti-scordar-di-me che abbelliscono sia il campo all’Agneda sia il terrazzo di casa, a Scarpatetti, il cuore antico di Sondrio. Sfumature di colori che segnano il passaggio dalla primavera all’estate, all’autunno, tempo in cui il raccolto si esaurisce e la terra si concede un meritato riposo.

Rape, rapanelli e altri ortaggi

Come si coglie tra le pieghe e gli acquerelli di questo volumetto incantato – mancano solo gli gnomi – l’orto e il giardino sono tra gli ultimi rifugi ricchi di poesia dove il cuore può trovare consolazione, dove lo spirito si sente appagato e le piccole seccature, gli assili e le angosce quotidiane rimangono fuori dal recinto. Ma sono anche un luogo “vero” dove dare forma e corpo al progetto più utopistico, e insieme concreto, che l’uomo possa immaginare: ricavare cibo e bellezza dalla terra.

Il libro non è né vuole essere un manuale, non vuole insegnare nulla. È semplicemente la “summa” dell’esperienza dell’autrice “sul campo”; è uno sfogo dell’anima che ci consente di entrare nella sua vita e nel suo orto per il tempo che dedicheremo al libro, ma dalla cui lettura ne usciremo diversi. Perché dentro non c’è nulla che suoni innaturale, poco attendibile, “stonato”: una rarità, di questi tempi. E non è un caso, perché, oltre a dipingere, da anni Luisa suona il flauto dolce e la viola da gamba soprano. Nel tempo che le rimane scia, va in bicicletta, cucina, fa marmellate e conserve – nel libro ci concede qualche semplice e altrettanto autentica ricetta di famiglia – si prende cura dell’orto, delle cose e delle persone che ama, e la sera, in compagnia della vecchia scatola di colori e pennelli (che le ha regalato, per i suoi diciott’anni, il padre Giorgio, pittore e suo maestro, e che ancora usa) riprende le redini della sua vicenda umana ripensa, riconsidera che nel libro esprime in brevi corsivi, minuscoli luccichii di lontane costellazioni che trasformano “La cura dell’orto” in una lettura senza tempo.

Rape, rapanelli e altri ortaggi

Pagina originale > blog.oggi.it

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